Ecco il testo trasformato per renderlo unico, mantenendo lo stesso significato:
Stavo tornando a casa quando, attraverso il finestrino posteriore di uno scuolabus, notai una bambina visibilmente spaventata che si agitava senza sosta. Il tempo sembrò rallentare. C’era qualcosa che non andava, e sembrava serio. Ma quale minaccia poteva esserci su un mezzo destinato ai bambini? Senza pensarci due volte, accelerai per seguirlo, con il cuore che batteva forte nel petto. La pioggia battente colpiva il parabrezza mentre continuavo a guidare. Ogni goccia sembrava pesare sulle mie emozioni. Era già una giornata difficile: prima mio fidanzato aveva annullato il nostro matrimonio all’ultimo minuto, e ora avevo perso il lavoro. Un turbine di pensieri mi sopraffaceva… «Respira, Molly», sussurrai, cercando di afferrare meglio il volante. «Ogni fine porta a un nuovo inizio, vero?» Ma quelle parole mi sembravano vuote.
Come avrei potuto raccontare a mia madre che mi avevano licenziata? Era già un periodo difficile per lei. Dopo la morte di mio padre, era diventata il mio unico punto di riferimento. Non volevo ferirla. Il telefono squillò per la quinta volta. Era lei. Feci una pausa e risposi: «Mamma, sono quasi a casa. Sto guidando…» «Tesoro, hai sentito che tempo sta facendo? Sta arrivando un brutto temporale. Guida con calma.» Mi prese un nodo in gola. Quella tempesta non era niente a confronto a quella che infuriava dentro di me. «Non preoccuparti, sto arrivando.» «Sei sicura di stare bene? La tua voce è strana.» «Sono solo stanca. Ci vediamo tra poco, ti voglio bene.» Riattaccai, il cuore pesante.

Come avrei potuto confessare che avevo perso il lavoro per aver lottato contro le ingiustizie aziendali? Mi avevano licenziata per non aver raggiunto gli obiettivi, ma sapevo che non era così. «Cosa potrebbe andare peggio?» pensai, mentre mettevo la retromarcia. Non avevo idea di quello che stava per succedere. Mentre tornavo sulla strada principale, uno scuolabus giallo mi sorpassò a grande velocità. Un dettaglio mi fece trasalire: dalla finestra posteriore, una bambina dai capelli chiari batteva i pugni contro il vetro, con gli occhi pieni di terrore. «Oh no… È in pericolo?» Mi bloccai per un attimo, senza fiato. Senza pensarci, aumentai la velocità per avvicinarmi. Sembrava in grave difficoltà, ma perché? Cosa era successo sull’autobus? «Tieni duro, piccola, sto arrivando», mormorai, mentre accendevo i fari. L’autista continuava a guidare, indifferente.
Il panico mi pervase. Non c’era tempo da perdere. Sorpassai l’autobus e lo fermai bruscamente nel traffico. Un uomo robusto con baffi neri scese con furia. «Signora, cosa sta facendo?!» Lo ignorai e corsi dentro l’autobus. Tra le urla e i risate dei bambini, cercai con lo sguardo la bambina. Era in fondo, con il viso rigato di lacrime, il volto rosso. Quando mi avvicinai, un brivido mi percorse la schiena. «Hai un attacco d’asma?» La bambina annuì, ansimando. Mi inginocchiai accanto a lei, il cuore a mille. «Come ti chiami?» Indicò un cartellino con il suo nome: Chelsea. «Dove hai il tuo inalatore?» Lei scosse la testa, incapace di rispondere. Mi girai verso l’autista, che ci guardava, sconvolto. «Dov’è il suo inalatore?» «Io… non sapevo che ne avesse bisogno!» Cercai di mantenere la calma mentre rovistavo nello zaino di Chelsea. Non c’era nulla. Il panico mi assalì quando notai che le sue labbra stavano diventando blu.
«Aiutatemi a trovarlo!» urlai. Mentre cercavamo sotto i sedili, alcuni bambini ridevano e si scambiavano occhiate compiaciute. «Non è il momento di scherzare!» li rimproverai, furiosa. Poi un’idea mi colpì. Iniziai a frugare negli zaini, senza curarmi delle loro proteste. «Ehi! Non puoi farlo!» gridò un ragazzo con le lentiggini. Alla fine trovai l’inalatore, ma non nello zaino di Chelsea. «Perché hai il suo inalatore?» Chiese imbarazzato: «Era solo uno scherzo…» «Uno scherzo?! Poteva morire!» Senza perdere un secondo, corsi da Chelsea e le misi l’inalatore davanti alla bocca. Dopo qualche respiro, il suo viso riprese colore. La guardai negli occhi e le presi la mano. L’autista, sconvolto, si passò una mano tra i capelli.
«Mi scuso, non sapevo…» Lo fissai, ancora scossa. «Hai la responsabilità di questi bambini. Dovresti stare più attento!» Chelsea mi strinse il braccio, con voce tremante: «Grazie.» Quelle parole mi colpirono più di qualsiasi altra cosa. Non potevo lasciarla da sola. «Ti porto a casa, va bene?» Lei annuì, regalandosi un piccolo sorriso. Dopo qualche fermata, indicò due adulti che la stavano aspettando fuori dalla scuola. «Sono i miei genitori!» Quando scese, sua madre le corse incontro.

«Chelsea! Chi è questa ragazza?» Con sicurezza, Chelsea rispose: «Mamma, lei mi ha salvata.» Dopo aver ascoltato la storia, i suoi genitori mi guardarono con gratitudine. «Come possiamo ringraziarti?» chiese il padre, visibilmente emozionato. «Non c’è bisogno, sono felice di aver potuto aiutare.» La madre insistette per accompagnarmi alla macchina. Mentre camminavamo, mi chiese: «Che lavoro fai?» Sospirai. «Ironia della sorte, oggi ho perso il lavoro.» Mi scrutò per un momento, poi disse: «Io e mio marito gestiamo un’azienda. Potremmo avere una posizione per te. Ti andrebbe un colloquio?» Rimasi sbalordita. «Sul serio?» Lei sorrise. «Persone come te sono rare. Ti vogliamo nel nostro team.» Stringendo il suo biglietto da visita, sentii una scintilla di speranza accendersi in me. Forse davvero, quando una porta si chiude, un’altra si apre.